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Sino alla fine degli anni Ottanta, le squadre di club avevano un una specifica connotazione nazionale e numero limitato di stranieri (addirittura i giocatori delle squadre dell’est non potevano trasferirsi all’estero prima di aver raggiunto l’età dei 28-30 anni e comunque con enormi difficoltà e limitazioni burocratiche); alla Coppa dei campioni partecipava solo chi vinceva il rispettivo campionato, il numero di partite in tv era più contenuto e non si giocava ogni giorno; c’era una ritualità nei tempi e nei momenti, un rispetto(se non un culto) quasi reverenziale per certe tradizioni, legate a colori delle maglie(oggi non di rado stravolte) e stili di gioco, come quello nordeuropeo atletico e mai domo, quello sudamericano tecnico e spettacolare, quello mediterraneo scaltro e astuto, quello slavo sornione e un po’ misterioso; in fondo, quegli stili di gioco rimandavano, sociologicamente, allo spirito dei popoli che li attuavano. La caduta del muro ha sfaldato potenze calcistiche nazionali, come erano l’URSS e la Jugoslavia, in tanti piccoli Stati e, se una volta le squadre dell’Est europeo competevano spesso alla pari con quelle occidentali, in incontri che avevano un che di epico-ideologico, poi, progressivamente e inesorabilmente, esse sono state marginalizzate dal calcio che conta: non sembra un caso che l’ultima squadra dell’Est Europa a vincere la Coppa dei campioni sia stata la Stella Rossa di Belgrado nel 1991(ultima edizione, peraltro, della Coppa dei campioni tradizionale tutta con eliminazione diretta prima dell’avvento della formula con gironi tipica della Champions’ League), poco dopo la caduta del muro e che, da allora sino a tutt’oggi, per le squadre dell’Est, nel più prestigioso torneo, come massimo risultato, si può registrare solo una semifinale della Dinamo Kiev nel 1999. Lo sbalzo situazionale è innegabile se si ricorda che nel decennio precedente 1980-89, invece, oltre alla vittoria della Steaua Bucarest nel 1986, vi furono ben 6 semifinaliste dell’est(CSKA Sofia nel 1982, Widzew Lodz nel 1983, Dinamo Bucarest nel 1984, Dinamo Kiev nel 1987, Steaua nel 1988) e la stessa Steaua perse la finale nel 1989. Si deve poi rilevare che la liberalizzazione delle frontiere e dei vincoli contrattuali (questi ultimi alterati a metà anni Novanta dalla legge Bosman, che consentiva, ai calciatori il cui contratto scadeva, di trasferirsi da un club a un altro senza che il club che acquisiva il giocatore con contratto scaduto, pagasse alcuna somma alla squadra precedente come invece accadeva in passato) ha portato a squadre costituite interamente da stranieri: gli stili e le tattiche di gioco si sono, di conseguenza, maggiormente uniformati e, con l’avvento delle maglie personalizzate(da metà anni Novanta), con numero fisso e nome del calciatore sulla schiena – l’esempio forse più simbolico dell’individualizzazione tipica del modello di società neoliberale – il legame tra ruoli e numeri e specifiche tradizioni è in massima parte volatilizzato: il 45 di Mario Balotelli come il 21 di Andrea Pirlo, o il 99 di Samuel Eto’o, tanto per citare qualche calciatore-icona dei nostri tempi, non hanno, neanche lontanamente, alcun significato tattico, sono al contrario la spia di una destrutturazione.

Quarti di finale di Coppa dell’Europa Centrale. 1909 – Finalista di Coppa Lipton. Così, tanto per essere sicuro che si lavora l’idea di essere con qualcun altro con dribbling provare il calcio attraverso la piazza I dispositivi Olf offrono l’idea delle fasce di prezzo di mercato, che a loro volta acquistano quasi tutti i fan abbastanza soldi. Le stesse tattiche di gioco avevano analoghe connotazioni specificamente nazionali: il calcio belga e olandese con zona e fuorigioco sistematico, quello italiano con libero e contropiede, il futbol bailado brasiliano fondato su dribbling e fraseggio, sino alla tradizione elegante del “calcio danubiano” di ambito austriaco-ungherese-ceco, quasi riflesso sportivo della raffinata cultura intellettuale mitteleuropea. La qualità delle partite ne risente(molti incontri dei vari tornei nazionali e internazionali, diventano concretamente poco influenti) per l’inflazione dell’offerta e anche i campioni dell’età globale sono sempre più personaggi d’immagine, interamente integrati in un circuito mediatico specifico, sistematizzato e privilegiato, in cui l’apparenza conta forse più della tecnica: dal 2008 a oggi, tutti i Palloni d’oro (massimo riconoscimento individuale per calciatori) assegnati sono andati solo a Cristiano Ronaldo e Leo Messi, ciascuno guarda caso front man dei due principali colossi di abbigliamento sportivo che oggi si spartiscono il calcio che conta, Nike e Adidas.

Ovviamente, la sociologia ha però questioni molto più pressanti e complesse cui dedicarsi, che non la vicenda del calcio globale, ma forse a queste osservazioni potrebbero interessarsi con maggiore attenzione almeno i tanti media e giornalisti che, come è noto, gravitano attorno al mondo del calcio e il cui ruolo dovrebbe anche essere, in qualche misura, volto a trasmettere quella che si definiva cultura sportiva, ossia una preliminare comprensione storico-sociale e etica dello sport. Non ci si illude certamente che questo possa accadere e neanche che ciò possa avere qualche importanza; in fondo, il mondo del XXI secolo appare disperatamente sempre più senza redenzione, un mondo in cui davvero sembra impossibile pensare un altro futuro e non ripetere gli stessi errori legati alle evoluzioni ineffabili della modernità: così inutilmente remiamo, barche controcorrente, risospinti senza sosta nel passato. Al momento di ingresso in carcere, nella cella n.56, il secondino che lo accompagnava gli comunicò che la cella che gli era stata assegnata era quella dove era stato ristretto il patriota risorgimentale Luigi Settembrini, al che Pertini, come raccontò in seguito, andò tastando le pareti della cella per immedesimarsi nello spirito del grande letterato italiano che l’aveva abitata. Raffaele Boianelli, Il giovane Pertini, un eroe italiano.

By Felisa

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